"TEURGIA"
(tratto dal libro "Teurgia")

Teurgia (in greco antico: θεουργία, theurghía) dal greco antico thèos, «dio», e urghìa, da ergon, «opera»: quindi «opera divina», o «operare come un dio».

Da quanto in precedenza esposto, e solamente attraverso l’esatta comprensione di ciò, è possibile delimitare esattamente la genesi, la forma, la sostanza e il perimetro della teurgia. Essa trova nel Mito – eterno patrimonio allegorico e simbolico sacro – quel dominio da cui desumere - mediante il rigoroso ragionamento e successivamente la vivificazione interiore – la narrazione immaginifica delle relazioni che sussistono sul piano materiale, sul piano cosmico e le correlazioni fra di essi. In ciò trova applicazione il metodo filosofico, il quale necessariamente postula l’esistenza di un Essere posto oltre la sfera del sensibile e oltre il Cosmo medesimo, un Essere fonte di ogni radice e unico principio di Verità Assoluta; Egli promana delle Idee o Archetipi che sono a loro volta tradotti in forma – senza soluzione di continuità – da un Demiurgo posto all’apice del Cosmo; sottostante al Demiurgo abbiamo il Cosmo Ordinato e popolato dagli Dei Cosmici ed infine le forze naturali, l’uomo e la sua composita anima, incarnatasi nella materia, che anela a reintegrarsi (henôsis:"unione") con la fonte rappresentata dall’Essere da cui è stata emanata. Solamente attraverso la teurgia l’uomo sacerdote potrà, liberarsi dalle catene che rendono l’uomo comune schiavo fra gli schiavi, e così trascendere il fato[1] o il caso[2].

“Nel gregge del fato non cadono i teurghi.” (Oracoli caldaici, frammento 153)

 Il teurgo, grazie allo studio delle scienze naturali, della matematica e della teologia si impegnerà in un percorso teso alla trascendenza dei vari piani dell’esistente ed identificarsi progressivamente in Intelligenze sempre più prossime al dominio dell’Essere. Per conseguire tale obiettivo egli si avvarrà dell’osservanza dei riti religiosi tradizionali (formazione morale), della purificazione della propria composita natura, della disciplina del ragionamento, dell’arte dei talismani tesi ad esercitare un potere sugli Enti intermedi in accordo con la volontà dell’Essere e dei rituali quali forma di catalizzazione e canalizzazione di energie sovrumane e sovrasensibili; ottemperando a ciò il teurgo si rende coadiutore dell’Opera divina rivolta ad un processo di rettificazione laddove adesso regna il caos e la prevaricazione.

Queste sono le forme, la sostanza e il campo d’azione della teurgia tradizionale, e solamente il rispetto di ciò la distingue dalla magia intesa come strumento di governo e di dominio di forze naturale o astrali al fine di perseguire un vantaggio per noi o per altri; la magia, che sottostà inevitabilmente sia al principio di causa e di effetto e sia al principio di indeterminatezza, non produrrà mai pienamente i risultati sperati e innescherà un meccanico moto di riequilibrio delle energie sui vari piani, con conseguenze imprevedibili e sovente non auspicabili.

Al magista poco interessa l’ordine cosmico e benché meno il dominio ad esso superiore; egli è pienamente centrato su di un piano sensibile dove le forze della natura sono saette da raccogliere e scagliare in guisa del proprio particolare desiderio o ingegno. Il magista autentico opera in modo prevalentemente destrutturato, cogliendo le finestre temporali opportune e tramite di esse ricerca il governo di quelle forze telluriche e astrali richiamate dagli agiti dell’anima concupiscibile (epithymetikòn). Egli utilizza le forze emotive, sessuali e mentali per “lanciare[3]” la propria volontà in forza di un tramite, oppure “covando” tale volontà all’interno di un simulacro[4], contro una definita situazione o una determinata persona. Si comprenderà, a prescindere ogni valutazione di ordine morale e spirituale, come tali operazioni siano ben lontane da un proposito di trascendenza e affrancamento dal caduco quaternario. Esse, anzi, rafforzano il legato fra il magista e questo basso piano dimensionale, creando un groviglio di flussi energetici e di magnetismi da cui difficilmente è possibile liberarsi. Sperando di avere fugato ogni dubbio attorno alla distinzione fra magia e teurgia, andiamo adesso a distinguere quest’ultima dalla cosiddetta magia cerimoniale; a tal proposito riporto questo estratto:

«La Magia Cerimoniale è una operazione con la quale l’Uomo cerca di costringere, con il gioco stesso delle Forze Naturali, le Potenze invisibili dei diversi Ordini ad agire secondo ciò che esse richiede. A questo scopo, le afferra, le sorprende, per così dire, proiettando delle Forze di cui egli stesso non è padrone, ma alle quali può aprire delle vie straordinarie, in seno stesso della Natura. Donde Pentacoli, sostanze speciali, condizioni rigorose di Tempo e di Luogo che occorre osservare pena i più gravi pericoli. Poiché, se la direzione ricercata è un pochino imperfetta, l’audace è esposto all’azione delle “Potenze” nei cui confronti non è che un granellino di polvere...» (Charles Barlet: l’«Initiation», numero di gennaio 1897).

Fermo restando l’estremo ottimismo dell’estensore del pensiero di cui sopra, da cui traspare eccessiva fiducia nelle proprie qualità e fede incrollabile nei propri costrutti, in esso ben si evidenzia la difformità fra magia cerimoniale e teurgia; malgrado la prima assuma forma e cadenze similari alla seconda, quest’ultima verte – così come la magia – sempre e comunque sul governo e sull’indirizzo di forze naturali e forze intermedie per i propri fini, in guisa del diletto e della volontà dell’operatore.  Al magista cerimoniale molto interessa il piano delle forze e delle intelligenze cosmiche, e in modo profittevole guarda ad esse ed al piano ubicato oltre. Il cerimonialista opera in assenza di accordo con una volontà ordinatrice superiore, e poco si cura di interrogarsi sulla liceità del proprio agire e del proprio volere; un capriccio dell’ego, che come tale espone sovente il mago ad incerti rischi giammai a sufficienza calcolati, in quanto l’irruzione su questo piano in forma e in volontà di forze ed intelligenze, presuppone da parte di esse la possibilità di agire e di nutrirsi laddove individueranno il maggior profitto e il minor costo. Per questo il buon Charles Barlet sottolinea, nel suo breve estratto, l’importanza apotropaica dei pentacoli e di altre condizioni quali il tempo e il luogo. Sarebbe utile interrogarsi, adesso e per sempre, su come un desiderio di potenza possa prender mossa da uno stato di necessità, in quanto tutto su questo piano potrà sempre essere conseguito grazie all’intelligenza e alla virtù, senza scomodare forze ed intelligenze estranee o aliene ad esso.

Liberato il passo dalle due pietre di inciampo rappresentate dalla magia e dalla magia cerimoniale, vediamo adesso di sollevare la mente da una novella suggestione che è espressione della più becera e decadente tendenza dell’esoterismo occidentale contemporaneo: il perfezionamento. Orbene, a coloro che vanno cianciando in ogni tempio, in ogni tavola e in ogni convivio di come il perfezionamento sia il fine ultime della vera iniziazione e come tutti gli strumenti dell’arte e l’universo intero congiurino per il miglioramento dell’uomo e, udite udite, il progresso della società, a coloro chiedo se all’interno dei loro nobili perimetri le cariche apicali di governo e di indirizzo siano fulgidi esempi di siffatti proclami. Ritenere che il semplice ritrovarsi attorno ad un rituale collettivo e ripetere frasi (a cui non si riconosce oltre un significato vagamente morale) sia in sé e per sé sufficiente, ha ben poco senso fattivo, in particolar modo quando non vi sia una presa di coscienza assoluta attorno alla miserrima condizione in cui versa l’uomo, ed un’azione costante protesa alla rettificazione interiore; è un piano di azione meramente sociale o conviviale e come tale dovrebbe essere trattato, per questa ragione siffatte istituzioni hanno rappresentato al massimo il bacino di pesca dove taluni venivano raccolti e collocati in ben altri perimetri. Non si spiegherebbe altrimenti la spasmodica ricerca di altro, che continuamente affligge e perseguita i membri di tali istituzioni. Ebbene il perfezionamento è condizione necessaria ed indispensabile per la pratica della teurgia e non il fine della medesima. Esso deve intendersi come studio degli scritti sapienziali, come affinamento del nostro pensiero teso all’analisi delle relazioni tutte, il disvelamento delle nostre meccaniche interiori e delle nostre incongruenze, la rimozione di quanto è ostativo al nostro anelito di trascendenza.  Si tratta quindi di un rendersi adeguati alla teurgia e al servizio che essa impone, e solamente attraverso questa stretta via i rituali teurgici si tradurranno in opera laboriosa e gloriosa; porre al centro i nostri effimeri desideri – frutto sovente di contingenze momentanee – per quanto “nobili”, significa porre come fulcro della nostra azione iniziatica quanto invece dovrebbe esserne escluso!

In merito al perfezionamento, inteso come processo dinamico, riporto questo estratto di Arturo Reghini: “Anche gli antichi misteri classici avevano lo stesso scopo e conferivano la teleté, la perfezione iniziatica; e questo termine tecnico era etimologicamente connesso ai tre significati di fine, morte e perfezione, come osservava già il pitagorico Plutarco. Ed anche Gesù ricorre alla stessa parola, tèleios, quando esorta i suoi discepoli ad essere «perfetti come il Padre vostro che è nei cieli», sebbene, con una delle frequenti incongruenze delle Sacre Scritture, lo stesso Gesù affermi che «nessuno è perfetto ad eccezione del Padre mio che è nei cieli». La definizione che abbiamo riportato sembrerebbe esplicita e precisa; eppure con una lieve alterazione formale essa ha subìto una grave alterazione nel concetto. Per esempio, il dizionario etimologico del Pianigiani afferma che il fine della Massoneria è il perfezionamento dell'umanità; e non soltanto molti profani ma anche molti massoni accettano questa seconda definizione.”[5] A tale cesello di Arturo Reghini dobbiamo apportare un necessario completamento. A partire dall'epoca di Socrate (469-399 a.C.) e proseguendo attraverso le riflessioni di Platone (429-347 a.C.) e Aristotele (384-322 a.C.), emerge un notevole interesse filosofico nei confronti delle questioni concernenti l'ultimo fine dell'universo e di tutto ciò che esso contiene. In particolare, si rivolgeva un'attenzione significativa alla determinazione dello scopo della vita umana. I filosofi di tale periodo utilizzavano la parola "telos" per designare l'obiettivo finale di un ente o la ragione fondamentale della sua esistenza. Questa indagine sistematica e approfondita su tali tematiche costituì il fondamento per lo sviluppo di una branca filosofica nota come teleologia. Quindi, ricapitolando, Tèlios o telos ha come significato quello di fine, scopo, oggetto, compimento, adempimento, effettuazione, risultato finale, riuscita, esito e conseguenza. L'infinito del verbo è “teleiono”, che significa «raggiungere una meta lontana, svilupparsi completamente, consumare o finire». Tale raccolta concettuale offre, come già indicato in precedenza, un dinamico tendere erso un qualcosa di idealmente esterno ed estraneo rispetto a colui che deve o dovrebbe compiere tale azione. Ecco quindi tèleios come “ciò che è portato a termine” o “ciò che è portato a compimento”; e nel nostro perimetro di riflessione “ciò che è necessario portare a termine” nella prospettiva della trascendenza. Spero che si abbia compreso come la teurgia non rappresenti un percorso di miglioramento individuale e neppure una forma nobile di magia cerimoniale e neppure uno strumento per governare il quaternario o i piani sovrani o sottili; essa è “una via del possibile” incontro con il divino strettamente connessa all’esercizio del Sacerdozio, e non vi è sacerdozio in assenza di sacerdote, e non vi è sacerdote in assenza di culto, e non vi è culto in assenza di Dio! La teurgia rappresenta uno strumento attraverso cui il teurgo è tramite fra questo piano e quello superiore. È grazie a siffatto asse spirituale che si compie il duplice viatico, che vede certamente il trascendere del teurgo, ma anche il discendere di quelle influenze sottili che giungeranno a beneficio del medesimo, della fratellanza di cui è anello e del piano cosmico. Sicuramente egli potrà chiedere, ma sempre e soltanto nella misura che ciò sia a beneficio del proprio servizio! Saper chiedere significa sapere di cosa realmente abbiamo bisogno e di quanto è invece superfluo o eccessivo.  La prospettiva in cui si pone il teurgo, la sua particolare inflessione, è quella di un allocentrismo superiore che vede tutta la sua esistenza consacrata all’Essere. Ecco quindi che è parimenti errato porre al centro dell’agire il “rituale” il quale è un circuito atto a catalizzare e canalizzare energie attraverso l’insieme interconnesso e sinergico di cadenze, gesti, parole, simboli, talismani e pantacoli.  Ovviamente come ogni circuito esso rimarrà inerte se non sarà collegato ad una qualche fonte energetica e se sarà privo della giusta maestria e dell’adeguata intelligenza capaci di governarlo. Del resto la stessa etimologia della parola rito ci aiuta comprenderne la stretta strumentalità. La parola rito (da cui deriva rituale) affonda le proprie radici in “Ritus” (latino) che si riconnette alla parola sanscrita “Ritis” il cui significato è andamento o procedura. Ulteriormente possiamo individuarne l'etimologia nel greco ἀριϑμός (arithmòs) = numero e nella radice sanscrita rtà = misurato. Ecco quindi che il rito assume forme e sostanza in una serie di atti (parole, gesti, formule, ecc.) codificati (misurati e numerati: così stabiliti) che permettono di procedere in modo ordinato verso il risultato voluto. Indubbiamente il rito potrà assumere valenza devozionale, invocativa/evocativa o drammatica ma è pur sempre necessario comprendere che il suo fine non è la perfezione o la complessità del medesimo, ma la sua efficacia.  

Malgrado un rito possa essere elaborato, ricco nel suo splendore simbolico, adeguate la cadenza e la movenza dei partecipanti, preziose e raffinate le patenti, se non sussiste l'armonioso lavoro interiore (preghiera, purificazione, meditazione, introspezione), questo risulterà essere solamente una rappresentazione carnevalesca, dove l'illusione dei molti si autoalimenta dove si confonderà il grado ricevuto con l'effettivo livello dell'essere, dando vita ad un appagamento psicologico che tenderà a trattenere, se non a far retrocedere, il singolo. Non vi è Eggregore, Catena, Rito e Operatività in grado di infondere vita e ardore dove regna il deserto della pochezza di spirito e di intelletto. Uno strumento è mezzo inerte, se conferito a colui che non ha orecchie per udire, occhi per vedere, gambe per camminare e mani per operare. Questa è la verità, nessuno farà mai il lavoro che a noi compete, e nessuno potrà donarci le qualità che ci sono assenti. L'errore fondamentale di troppi postulanti è il ritenere che una qualsiasi organizzazione iniziatica abbia come obiettivo quello di lenire i turbamenti psicologici accumulati nel corso di una vita, oppure che essa sia il luogo dove poter manifestare ad oltranza un ego bisognoso di platea e palcoscenico. L'obiettivo di una reale organizzazione iniziatica è quello di perpetuare se stessa, in modo da traghettare il proprio patrimonio docetico, operativo e simbolico nel corso dei tempi. Maggiore è la comprensione di tale questione, e maggiore sarà il beneficio che l'iniziato saprà trarre dalla sua associazione; ciò implica un sacrificio da parte del postulante proprio di quella parte a cui è tanto attaccato e che in genere erroneamente ritiene essere proprio quella che maggiormente debba essere gratificata tramite l'iniziazione. A completamento questo estratto di R. Le Forestier ("La Massoneria Occultistica nel XVIII secolo e l'Ordine degli Eletti Cohen"): "Per quanto fossero importanti le cerimonie delle Operazioni: prosternazioni, incensamenti, invocazioni con preghiere, tuttavia esse non erano del tutto efficaci; erano necessarie, ma non sufficienti. Per convalidare la loro azione erano indispensabili tre fattori: la virtù mistica dell'operante, un'influenza astrale favorevole ed il concorso della grazia divina. La virtù mistica dell'adepto, a sua volta, dipendeva da tre condizioni: dal suo stato di grazia, da una soprannaturale facoltà conferitagli dall'ordinazione, dalla cooperazione simpatica a distanza dei suoi uguali in iniziazione. La sola precisione della cerimonia non basta" scriveva Pasqually nel 1768 a Bacon de la Chevalerie " sono necessarie anche l'esattezza della santità di vita [...] (all'adepto che vuole entrare in relazione con gli Spiriti), gli occorre una preparazione spirituale fatta di preghiera, ritiro ed attesa" (V,229). L'Eletto Coen doveva osservare una "regola di vita" molto ascetica. Gli era proibito "per tutta la vita", nutrirsi di sangue, grasso e rognoni di qualsiasi animale, mangiare carne di piccione domestico (111,76/77). Con estrema moderazione poteva darsi ai piaceri dei sensi, poiché, per poter giungere al grado supremo, egli doveva astenersi da qualsiasi materia impura soprattutto dalla "fornicazione (relazioni sessuali) che crea turbamenti all'anima" (11,105)"

Da cui emerge, chiaramente, che il rituale non può sopperire a lacune e deficienze del teurgo e il suo disaccordo con la volontà divina, poiché mancanze legate alla formazione culturale e morale e alle adeguate purificazioni sono atte ad inficiare il rito, anche quello espresso con assoluta perfezione e sublime fluidità! Si rifletta attentamente sulle prescrizioni e sulle osservazioni del Teurgo di Lione, e si scorgerà in esse la cagione della nullità delle operazioni e si comprenderà come il rito teurgico sia l’estrema sintesi di un novero di qualità, di volontà e di disciplina della mente e del fisico che necessariamente lo precedono e di cui indispensabilmente sono propedeutiche. Mi preme in conclusione di questo paragrafo dissipare un ulteriore dubbio, la teurgia di cui noi parliamo non è lo scimmiottamento delle religioni tradizionali, in questo spero di essere stato chiaro fin dall’inizio, ma la comprensione e la sublimazione di essE; la teurgia non si rivolge al volgo, non pretende di avere carattere universale, non impartisce insegnamenti di carattere morale e non trova fondamento nella fede. Essa è intima sposa per l’uomo che vuole conoscere, che comprende il significato posto oltre al segno e si lascia guidare dalla costante ricerca della conoscenza delle cose tutte poste in lui e fuori di lui. I testi sacri e i riti religiosi saranno quindi valutati e compresi in ragione della loro continuità tradizionale e attraverso quanto simbolicamente e allegoricamente in essi raccolto.



[1] Il fato è un concetto filosofico e religioso che indica la forza che regola la vita degli uomini e il corso degli eventi. Il fato è spesso visto come un'entità ineluttabile, a cui nessuno può sottrarsi. Etimologicamente, la parola "fato" deriva dal latino "fatum", che significa "parola", "detto". In origine, il fato era quindi considerato come la parola della divinità, che predeterminava il destino degli uomini.

[2] Indica una forza che determina gli eventi in modo imprevedibile o casuale. In questa interpretazione, il caso è spesso visto come un'alternativa al determinismo, che sostiene che tutti gli eventi sono predeterminati da forze naturali o divine.

[3] psicobolia

[4] Rientra in questa pratica anche la sigillazione dei desideri.

[5] ARTURO REGHINI: “I NUMERI SACRI NELLA TRADIZIONE PITAGORICA MASSONICA”

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