"IL LAVORO FUORI DAL TEMPIO"

La storia delle religioni, la mitologia, la filosofia e le antiche credenze dei nostri avi narrano della caduta dell’uomo dall’empireo divino al mondo della materia. Questo suo improvviso e violento discendere assume varie forme, ma ognuna di essa ne sottolinea come conseguenza non solo l’allontanamento dalla fonte spirituale, non solo l’ottenebramento della coscienza ma anche la perdita di quelle prerogative insite nella sua originaria condizione di ente emanato direttamente dall’Essere, dal Protogenitore. Adamo, nelle religioni giudaico-cristiane, cadde perché disubbidì al divieto di cibarsi del frutto dell’albero del bene e del male; nello gnosticismo è l’errore della Sophia che causa il prolasso di materia e psiche in cui ci dibattiamo; il Vedanta postula l’identificazione-oblio dell’anima spirituale con i suoi involucri grossolani; nella tradizione teurgica degli Eletti Cohen l’uomo, che in principio era un coadiutore dell’Essere, viene corrotto e precipita nell’attuale condizione di creatura transeunte; nella filosofia greca viene indicato come l’anima umana debba compiere una seconda navigazione, e ricollocarsi in quel mondo spirituale posto oltre le sfere celesti.  Molteplici sono le riflessioni che possiamo intessere attorno a questa convergenza di miti e religioni, ma sicuramente emerge con vigore l’assoluta necessità di trascendere la condizione umana e il piano manifestativo per ricollocarsi in quell’originario dominio di perfezione spirituale, di essenziale purezza posto oltre ogni tempo e oltre ogni spazio. Questo anelito al ritorno alla dimora celeste – il Pleroma degli gnostici – è conseguibile solamente attraverso la liberazione da tutte le sovrastrutture psicologiche, i condizionamenti e il gravame psichico che noi stessi e le forze di questo mondo abbiamo apposto sopra la nostra anima spirituale o particola divina o pneuma. La separazione fra il piano ontologico e quello manifestativo, fra il mondo dell’essenza e il piano della forma, trova riflesso all’interno di ogni singolo essere umano; in quanto in noi riviviamo in ogni momento l’eco del dramma della caduta spirituale. In noi è raccolta una particola di pura essenza, immutabile e non soggetta alla legge del divenire, ma per nostra stessa volontà – o mancanza di volontà – ci siamo identificati nel divenire e sottoposti alle sue leggi meccaniche. Abbiamo deciso, e lo stiamo ancora adesso facendo, di assoggettarci ai piaceri delle cose di questo mondo, di proiettare, di identificarci, di lasciarci possedere dalle emozioni e da quanto è caduco e fallace. Quanto ci viene insegnato aver valore, quanto ci lega in modo indissolubile e ci offre il nostro posizionamento nella nostra inconsapevole esistenza è transitorio e destinato alla consunzione. Seppur tutto ciò è empiricamente evidente, una forza di opposizione ci impedisce di procedere lungo la via della reintegrazione e della rettificazione. Il movimento è l’azione legittima dell’uomo consapevole che anela al giubileo intimo e profondo, ma il movimento dell’uomo comune è verso quelle passioni e quelle cose che lo condanneranno all’eterno errore: all’eterno ritorno in corpi diversi nella forma, ma eguali nella prigionia. Niente e nessuno ci impedisce di tendere alla nostra condizione primitiva. Le forze avverse, le difficoltà, quanto è inerziale o opponente trovano linfa esclusivamente nelle nostre identificazioni e proiezioni. La loro sostanza è illusione, ombra, nebbia e suggestione ma per colui che a tutto ciò dà significato e sostanza di realtà indiscutibile, non vi può essere alcuna via di rettificazione percorribile. L’uomo invece che anela alla trascendenza, che desidera di procedere oltre se stesso e oltre il mondo dei fenomeni e delle seconde cause si porrà lungo il sentiero verticale. Taluni hanno cercato di colmare questi stati separativi sussistenti fra l’uomo e l’uomo e l’uomo e l’Essere attraverso la pratica devozionale, altri per mezzo dello studio filosofico, alcuni in forza di alti rituali o di pratiche meditative. Noi abbiamo scelto, in accordo con la Tradizione, che ognuna di questa rispettabili vie è in sé e per sé necessaria e non sufficiente, e che si necessita di un approccio integrale alla risoluzione del problema che sentiamo come opprimente ed impellente. È questa la teurgia, intesa non solamente come pratica rituale costante in accordo con le forze che hanno plasmato questo nostro piano manifestativo, non solamente come studio attento della sapienza tradizionale, non solamente come pratica religiosa ma anche come continuo lavorio interiore.

La via del teurgo è una via di azione integrale, che coinvolge il corpo, la mente e l’anima. Essa non trova risoluzione nella sola pratica rituale, di cui ho abbondantemente trattato, ma necessita di un continuo affinamento del praticante rivolto sia all’attenzione interiore e sia al risveglio di quelle abilità sempre latenti e retaggio della condizione precedente alla caduta pneumatica. È necessario riuscire a comprendere la meccanica del rituale, la strumentalità del medesimo rispetto al fine ultimo che è la trascendenza, il suo essere espressione fattuale di un complesso filosofico e mitologico che lo precede e il suo essere inerte in assenza di un operatore qualificato nella mente e nell’anima. Solamente innanzi a queste “sensibilità” sarà possibile transare da un’apparenza formale ad un’azione sostanziale, nobilitando il rituale da elaborata cerimonia a strumento di catalizzazione, trasmutazione e canalizzazione. In quanto è bene ricordare che il nostro agire non è rivolto a conquistare la magnificenza o il plauso del volgo e neppure a gratificare il nostro narcisismo o compensare mancanze profane con titoli “iniziatici”, bensì a liberarci proprio da quelle suggestioni, da quelle storture e da quei vincoli che ci trattengono in questa strutturazione psichica e materiale soggetta al dominio degli effetti e delle seconde cause. È questa una liberazione che non può avvenire in assenza della comprensione della nostra composita natura, e di come i vincoli più insidiosi sono quelli che l’uomo pone a se stesso. Ovviamente tale consapevolezza sui pesi e sulle misure e sulle intelligenze che governano il microcosmo uomo, sono speculari degli stessi pesi e misure e intelligenze che plasmano e determinano il dispiegamento polare della manifestazione. Il rito stesso altro non è che l’azione del teurgo tesa a rettificare, in accordo con la volontà dell’Essere, il piano interiore e il piano manifestativo. È quindi imprescindibile questo lavoro, da me definito “Fuori dal Tempio”, in quanto ci permette non solamente di essere adeguati al ministero sacrale, ma anche di comprendere lo stesso strumento rituale e la sua finalizzazione.

Ogni pratica nasce dall’uomo e nell’uomo trova punto di emersione e fulcro nel cuore. Il cuore è l’estrema sintesi dell’intelletto e del vitale; e la sua rettificazione è oggi urgente ed indispensabile. L’errore di tanti “iniziati” e cercatori è quello di ritenere che la via sia loro dovuta, che la via si estrinsechi in un egoico percorso di perfezionamento, o, peggio ancora, di acquisizioni di futili ed illusori poteri. Purtroppo il lamento dell’impotente non è canto gradito alla Dea Conoscenza. Come potrebbe la magia, che è atto di assoluta potenza, trarre mossa da uno stato di bisogno? Non può.

Ecco quindi la prima raccomandazione: “Imparate a praticare per servire un’idea superiore e non il vostro ego. Chiedete nella misura dell’utile, in quanto è nella morigeratezza che il saggio riconosce il buono e l’utile. Sappiate indagare sui vostri agiti, sulle vostre necessità e smascherate quei pensieri e quelle azioni di forma nobile, ma che nascondo una delle sette teste del dragone chiamato ego.”

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