ARCONTI

La Gnosi è veicolo e forma di redenzione

«Il Signore mi ha rivelato ciò che l'anima deve dire quando ascende in cielo, e come deve rispondere a ciascuno dei poteri superiori: 'Sono giunto a conoscere me stesso ed ho raccolto me stesso da ogni parte, e non ho seminato figli per l'Arconte, ma ho estirpato le sue radici e raccolto i membri dispersi, e conosco chi sei tu: perché io sono di coloro che sono dall'alto'. E così essa è liberata» (Epiph., "Haer." 26,13).

Il termine arconte trova la sua origine nel greco arkhonontos (magistrato, primo magistrato). La natura della parola è indicativa del ruolo che tale figura svolge nella teogonia e cosmogonia gnostica: essi sono i giudici e i controllori nel cosmo demiurgico. Gli arconti sono le prime emanazioni del Demiurgo, i suoi figli, e nei vari sistemi gnostici contribuiscono, seppur in modo diverso, alla creazione di questo nostro mondo e dell’uomo stesso. In genere in numero di sette, essi rappresentano le varie classi in cui è regolato il ciclo ripetitivo del tempo e dello spazio (sette i colori, sette i giorni della settimana, sette i pianeti, sette i metalli, ecc..). Il cosmo intero è sotto il dominio degli arconti, dove ognuno, assiso sul trono planetario, in forza delle proprie attribuzioni esercita un potere assoluto.

Quindi possiamo meglio inquadrare la funzione degli Arconti come quelle potenze, che in virtù della rimembranza, del Demiurgo loro padre, per l'ordine e l'armonia del Pleroma, tendono a ricrearla attraverso la suddivisione e la regolazione dello spazio insito nel Cosmo, attraverso atti di creazione e di applicazione delle leggi, dove la suddivisione, la regolazione e la creazione rispecchiano, seppur in difetto, l'antica realtà del pleroma. Essi quindi tendono a riflettere nel Cosmo accidentale il ricordo di quello che era, e che non è più. Lasciando trasparire anch'essi una sorta di nostalgia, sublimata nell'atto creativo stesso. Un ricordo che è insito nel loro patrimonio genetico, o per meglio dire nella loro medesima matrice spirituale. La quale, così come quella del Demiurgo, non proviene direttamente dal Pleroma e neppure, come nell’uomo, è il vivificante respiro dello spirito divino post creazione. Essa è frutto dell’accidente, di quel trambusto, che tutto altera, causato dall’errore della Sophia.

«Colui che raggiunge tale gnosi e raccoglie se stesso dal cosmo... non è più trattenuto quaggiù, ma sale al di sopra degli Arconti»

È la gnosi salvifica che irrompendo nell’uomo lo depone su di un altro piano dell’esistente: alieno al potere e al dominio arcontico. 

Se quanto sopra esposto, sommariamente, rappresenta l’inquadramento basilare delle figure degli Arconti, nondimeno dobbiamo ripotare come in alcuni sistemi gnostici, prossimi alle religioni mediorientali, gli Arconti svolgevano anche altri ruoli. Questi non solo riproponevano, seppur fallacemente, l’architettura del Pleroma, non solo raccoglievano l’elemento unico, il pneuma, nei corpi/vasi della materia, ma trovavano nutrimento psichico dagli uomini. 

«Essi dicono che l'anima è il nutrimento degli Arconti e delle Potenze senza il quale non possono vivere, perché essa proviene dalla rugiada dall'alto e dà loro forza. Quando si è impregnata di conoscenza... essa ascende in cielo e si difende dinanzi a ciascun potere e sale al di là di essi fino alla Madre eccelsa e al Padre del Tutto da dove essa è discesa in questo mondo» (Epiph., "Haer." 40, 2). 

In precedenza, durante la trattazione della composizione e della creazione dell’uomo, abbiamo visto come l’anima è frutto dell’opera dei sette arconti. Essa, l’anima, è un corpo intermedio posto fra il pneuma e il corpo grossolano. I sette arconti rappresentano ogni classe in cui si articolano gli elementi e il tempo che compongono il cosmo demiurgico, ed è lecito supporre, seguendo tale impostazione, che attraverso le rispettive particole che danno costrutto all’anima, essi ne traggano nutrimento. L’anima (che sappiamo essere una miscellanea di emozioni, sentimenti, mente, desideri, ecc..) non svolge solamente funzione di imbrigliare ed intorpidire l’uomo, mantenendolo prigioniero nella bassa creazione, ma è anche il terreno fertile da cui gli arconti traggono il proprio nutrimento: l’anima affonda le proprie radici nel pneuma, ne trae nutrimento e lo condensa in frutti (emozioni e passioni) che sono il cibo degli Arconti. Ma al contempo, in questo gioco/giogo infinito, è tramite l’anima e le sue sollecitazioni che il pneuma può risvegliarsi.

Così l'Apocrifo di Giovanni descrive la nascita del primo Arconte:

Allorché essa vide che l'oggetto della sua volontà era di tipo diverso, aveva il corpo di un drago, la faccia di leone dagli occhi di fuoco fulminanti e fiammeggianti, lo allontanò da sé...........”

La Madre dell'Arconte è la Sophia Achamoth (la Sophia terrestre), un Eone promanato dal Pleroma, che disubbidendo alle regole che governano il Pleroma stesso, ha generato senza congiungersi al suo naturale compagno, ma unendosi al desiderio che essa provava per l'Ente Supremo.

Da questo breve, ma significativo stralcio, posiamo enucleare tre elementi che devono essere presi in considerazione:

La contrapposizione fra l'immagine della Sophia, e la bestialità del suo frutto. La vergogna della Sophia per il suo frutto. La nascita dell'Arconte tramite atto di esclusiva volontà della Sophia.

La natura animalesca del Primo Arconte, Jaldabaoth, è profondamente altro rispetto alla pura essenza pneumatica della Sophia; e in niente rende testimonianza alla perfezione della madre. In quanto in virtù del desiderio che lo ha generato, creato da pulsione alla separazione ma anche creante tale separazione, risulta specula negativa e mostruosa della bellezza e armonia che permeava in tutto il Pleroma. Qualora si prenda in esame il modello teogonico egizio, facilmente noteremo come le divinità siano rappresentate da chimere: connubi fra uomini ed animali sacri. In tale affresco della sacra manifestazione, così come per gli etruschi ed altri popoli, questa unione vuole sottolineare l’eccezionalità del divino, che, seppur riconoscibile per l’uomo, si pone come ponte fra il mondo dei vivi e il mondo degli dei. Nello gnosticismo la miscellanea fra elementi umani ed animali (i figli del primo arconte sono descritti chi con forma di iena, di pecora, di asino, di drago, scimmia e fuoco) ha valore esclusivamente negativa ed orrifico: a sottolineare non solo estraneità alla natura pneumatica, ma anche, e soprattutto, l’azione malevola da essi esercitata. Inoltre i loro nomi sono quelli del Dio dell’Antico Testamento, in modo da rendere evidente l’assoluta frattura spirituale che lo gnosticismo barbelotiano, ma in genere tutto lo gnosticismo, incarnava rispetto non solo alla tradizione giudaica, ma anche rispetto a quella cristiana-giudaica.

Il desiderio è corruzione di ogni pensiero, e il pensiero è la radice di ogni fare. Quindi se il desiderio è incubo del pensiero, e con esso si trova avvinghiato, ineluttabilmente l'azione posta in essere risulterà macchiata e stravolta. L’ Amore di conoscenza, che tutto arde, di Sophia per il Pleroma, divinità inconoscibile, si è trasmutato in desiderio e a sua volta in brama. L'ipostasi catarsica del pensiero di Sophia ne è risultata stravolta nella forma, seppure un seme della sua natura divina è scivolata in essa, e nel contenuto

Jaldabaoth, il Primo Arconte, e i suoi figli, in virtù della sua discendenza da Sophia detengono la capacità di creare[1]. Tale potere è limitato dalla ignoranza, e dalla degradazione generata dalla non discendenza diretta dall'Ente Supremo. Sono in grado solamente di plasmare forme, sulla base dei labili ricordi permutati dalla Sophia.

Da se stessi e dalle loro potenze hanno creato e composto una forma. E ciascuno ha creato dal [suo] potere l'anima: la crearono secondo l'immagine che avevano visto e per imitazione di Colui che esiste dall'inizio, l'Uomo Perfetto».

Jaldabaoth ordina il cosmo, i cieli, la terra, e il creato tutto, e pone sul trono dei cieli i suoi figli. Questa opera generativa viene interrotta dalla manifestazione del Metropator, accorso verso Sophia, immagine perfetta del Dio occulto, invisibile, Padre di tutto.  Il Demiurgo e gli Arconti, e le potenze da essi generate sono basiti da tale potenza, e tremano dalla consapevolezza della loro limitatezza a cospetto di cotanto splendore. Decidono quindi di catturare il Dio Padre, attraverso una sua immagine, l'immagine dell'Adam Terreste, specula dell'Adam Celeste: manifestazione del Metropator.

Ma tale creatura, relegata nel Paradiso Terreste, è incapace di alzarsi e solamente la clemenza del vero Padre, attraverso il soffio di vita, le permetterà di ergersi.

Ha così inizio il combattimento per il destino ultimo dell’uomo: sospeso fra la prigionia labirintica del mondo dei fenomeni, e l’ascensione nel mondo spirituale del Pleroma. È una lotta che trova come crinale, come elemento di vittoria o di sconfitta, il “pensiero” inteso come capacità e volontà di comprendere non solo la realtà fenomenica, ma anche e soprattutto la composizione interiore dell’uomo da parte dell’uomo.  

Il primo Arconte, onde impedire l’influsso spirituale che risveglia (la chiamata interiore: che ritroveremo anche nell’Inno della Perla), crea l’artificioso heimarméne. 

 «eGli volle prendere possesso (controllo) delle loro facoltà di pensiero... Egli prese una decisione con le sue potenze: fecero venire all'essere il Fato, e per mezzo di misura, periodi e tempi incatenarono gli dei dei cieli [pianeti e stelle], gli angeli, i demoni e gli uomini, affinché tutto fosse posto sotto il suo legame ed esso [Fato] fosse il signore sopra tutti loro: un piano diabolico e perverso!». 

Il cui scopo è quello di avvolgere l’uomo in una spirale, sempre eguale a sé stessa, di forme e di divenire. In modo, che distratto e affascinato dalle contingenze e dagli accadimenti, sia distolto e non rivolga la propria attenzione verso quel centro spirituale pulsante che il Metropator ha insufflato in lui.

Troviamo gli arconti come elemento centrale di una comunità religiosa tardo gnostica: gli Arcontici[2]. Questa è una setta gnostica del IV secolo diffusa in Palestina ed in Armenia, fondata da un prete palestinese di nome Pietro da Cabarbaricha, il quale, deposto dal sacerdozio, si rifugiò in una comunità ebionita. Intorno al 360, oramai in età avanzata, Pietro da Cabarbaricha viveva in estrema povertà, come un eremita in una caverna vicino a Gerusalemme, dove trasmise le sue dottrine ad un tale Eutatto, che le portò in Armenia.

Successivamente Pietro da Cabarbaricha venne scomunicato da Sant'Epifanio, vescovo di Salamis (l'attuale Costanzia sull'isola di Cipro), principale fonte di informazione su questa setta. La dottrina gnostica degli Arcontici era basata su sette cieli, ognuno governato da un principe (in greco archon, da cui il nome della setta), circondato da angeli, carcerieri delle anime, mentre in un ottavo dimorava la Madre Suprema di Luce. Il re o tiranno del settimo cielo era Sabaoth, il Dio dei Giudei, padre del demonio: quest'ultimo si era ribellato all'autorità del padre e aveva generato, unendosi ad Eva, Abele e Caino e quindi l'intera umanità. Compito delle anime era di raggiungere la conoscenza (gnosi) in maniera da sfuggire il potere malvagio di Saboath e volare in ciascuno dei cieli fino a raggiungere la Madre Suprema. Gli Arcontici erano molto ascetici e rigoristi (digiunavano spesso e praticavano la povertà), negavano la resurrezione del corpo (ma non quella dell'anima) e condannavano i Sacri Misteri e il Battesimo, in quanto qualcosa introdotto dal tiranno Sabaoth, per tenere intrappolate le anime. I loro testi sacri erano alcuni libri apocrifi, denominati Symphonia, Anabatikon e Allogeneis.

Tornando all'origine greca della parola Arconte, Magistrato, chiediamoci quale sia la funzione di tale figura divina, posta fra l'uomo e il Padre Occulto. L'arconte è una Potenza che ha plasmato la figura umana, e dato creazione alla sua dimora terreste. Tale speculazione è valevole per ogni contesto cosmogonico e teogonico; dove gli arconti hanno ruolo, essi sono raffigurati come quelle figure che hanno forgiato le regole, i pesi e le misure dando vita al Cosmo e al Tempo. Nei testi classici oltre ad evidenziare gli arconti come creatori, seppur limitati dalla loro ignoranza e accidentalità, (il Primo Arconte è chiamato Jaldabaoth l'arrogante o Samael il cieco), si sottolinea la funzione di ostacolo che essi esercitano al ritorno dell'uomo verso il Padre Occulto. Una forza di opposizione che si esplicita attraverso il perdurare della soggezione dell'uomo alle regole del Cosmo, e delle altre strutture in esso comprese. Essendo la composizione occulta dell'uomo dipendente per gran parte dall'agire degli arconti, vi è una corrispondenza naturale fra quanto vi è in noi, e quanto vi è fuori di noi. Da ciò discende che al costante richiamo che il Pneuma ci invia per spronarci al grande giubileo, al ritorno al Pleroma, si contrappone la continua volontà di fascinazione, ispirata dagli arconti tramite l’anima l’umana, alle manifestazioni di questo mondo.

Innanzi a questa strutturazione degli arconti e del loro ruolo, due sono state le risposte del mondo gnostico, nelle sue varie articolazioni. La prima si è tradotta in uno spirito di opposizione, di giudizio, di odio e di rifiuto verso quanto incarnava la legge arcontica (le istituzioni politiche, religiose, la morale, la cultura, ecc.). Dando vita ad una sovversione dei simboli e delle figure generalmente considerate positive, ed esternando verso di esse repulsione, derisione ed odio. L’altra tendenza vede l’inutilità dell’uomo-gnostico, di colui che sa, di giudicare la creazione e gli Arconti. In quanto essi in realtà sono i suoi magistrati "naturali" e la loro illusoria opera la sua contingente dimora. Essi sono visti come gli oppositori o allenatori, il cui superamento coinciderà con la trascendenza dello gnostico verso il Pleroma. L’uomo non è libero di ricongiungersi al Pleroma, in quanto carente di volontà per riuscirvi e gli Arconti sono testimoni di ciò. Anzi si potrebbe quasi osservare che essi, gli arconti, operino involontariamente alla grande epopea salvifica dell’uomo gnostico. Il quale è solamente attraverso la comprensione dell’ostacolo, del potere inerziale delle cose tutte della manifestazione demiurgica e dell’effimerità illusoria di ogni attaccamento che potrà ricordare la propria vera e transmondana natura spirituale.

Il potere arcontico, quale sia la sua lettura, verrò rotto dalla conoscenza dei nomi, dei sigilli e dei numeri posti alla loro edificazione. Questa Gnosi sarà trasmessa dalla discesa del Cristo Redentore: 

Disse allora Gesù: «guarda, Padre; questa, preda dei mali, sulla terra vaga lontano dal tuo soffio. Tenta di fuggire l’amaro caos e non sa come passare.

Per lei mandami, Padre: con i sigilli scenderò, attraverserò tutti gli eoni, svelerò tutti i misteri e mostrerò le forme degli dei. I segreti della santa via, chiamandola gnosi, trasmetterò». (Salmo naaseno) 

Lei, di cui il versetto narra, è la scintilla pneumatica che alberga nell’uomo-gnostico. È attraverso il potere dei sigilli (dal latino sigillum, diminutivo di signum, "segno"), un segno grafico inciso sul metallo appropriato, che viene spezzato il potere arcontico. Troviamo in ciò l’eco della teurgia egizia, di cui è pregno il “Libro Egiziano dei Morti”[3] con le sue formule per superare i tormenti e le insidie del regno della non vita.  

«Questa formula è stata trovata nella città di Khemenu (Ermopoli) sotto i piedi della statua di questo dio, scritta su un blocco di quarzite dell'Alto Egitto, in uno scritto del dio stesso, al tempo della Maestà del Re dell'Alto e Basso Egitto Menkaura (Micerino), giustificato, da parte di Djedefhor, "figlio del re", che la trovò quando venne a ispezionare i templi e i loro beni.» 

(Libro dei morti, Formula 30B, glossa — dalla traduzione di Budge)

«[...] conforme alle cose scritte nel libro di Djedefhor, "figlio del re", che le ha trovate in una cassa nascosta, in uno scritto del dio stesso, nella tempio della dea Unut, signora di Unu, quando viaggiò per ispezionare i templi, le città e i tumuli degli dei; ciò che è recitato è un segreto del Duat, un mistero del Duat, un mistero del regno dei morti.» (Libro dei morti, Formula 137A, glossa — dalla traduzione di Budge) 

Traducendo, in questo modo, quella che sembra essere solamente una ricca e bizzarra mitologia, in un sistema teurgico, dove la salvezza e la redenzione, in una parola la Gnosi, non sono più solamente la risultante di uno sforzo intellettuale e spirituale, non afferiscono ad una condizione purgativa dell’uomo, che così operando si libera delle scorie e delle grossolanità, ma si traduce in azioni magiche nei confronti degli attori di questa creazione distopica. La catabasi dell’eone Cristo su questo piano, catabasi in quanto per lo gnostico questo nostro mondo è cadaverico e infernale, traccia il viaggio di ritorno che l’uomo pneumatico dovrà compiere. Un viaggio che troverà ostacolo proprio nel dominio planetario, i sette, degli arconti. Il richiamo a sigilli, misteri e forme è indicativo di una verità strutturale della comunicazione umana. I nostri ricordi, il nostro inconscio e la stessa formazione del nostro pensiero non avviene attraverso parole, attraverso un processo logico-razionale, ma per mezzo di immagini. Sono queste immagini che raccolgono una molteplicità di informazioni, che poi sono tradotte dalla parola.  

E sono queste immagini che lo gnostico, l’uomo interiore che attende il completo risveglio, raccoglie, studia, vive e comprende attraverso il suo pellegrinare errabondo nei meandri profondi della creazione demiurgica: se stesso. 

«Il primo Arconte (Ialdabaoth) portò Adamo (creato dagli Arconti) nel paradiso che gli disse essere una 'delizia' per lui; cioè, aveva intenzione di ingannarlo. Perché la loro (degli Arconti) delizia è amara e la loro bellezza è illecita. Lo loro delizia è inganno e il loro albero era inimicizia. Il loro frutto è veleno contro il quale non vi è rimedio, e la loro promessa è morte per lui. Tuttavia il loro albero fu piantato come 'albero della vita', ti svelerò il mistero della loro 'vita': è il loro Spirito contraffatto che ha origine da essi per tenere Adamo lontano, cosicché egli non conosca la sua perfezione» (55, 18-56, 17, Till).


[1] In tale ottica il creare è una forma degenerata dell’emanare.

[2] Fonte www.eresie.it

[3] Il Libro dei morti è un antico testo funerario egizio, utilizzato stabilmente dall'inizio del Nuovo Regno (1550 a.C. circa) fino alla metà del I secolo a.C.

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